Se il nostro fosse un Paese
normale, una normale democrazia occidentale ed europea, darebbe sicuramente
l’importanza che merita a quel valore della memoria che – data la sua, la
nostra Storia – dovrebbe esserne un carattere peculiare e fondante, ma del quale
– invece e purtroppo – nella società italiana non pare esservi traccia alcuna e
per coltivare il quale non sembra vi sia né lo spazio, né il tempo, né tanto
meno – cosa di per sé gravissima – la volontà: viviamo un perenne e costante
«presente», un «adesso» assoluto e apparentemente imperituro, un «qui ed ora»
assolutamente arbitrario, autoreferenziale ed auto centrato, sganciato da
qualsiasi «prima», per cui il passato – anche quello prossimo – oltre che
lontano a prescindere, è qualcosa di inutile e di sterile, qualcosa che non
serve neppure ricordare.
Ora, poiché l’onestà intellettuale
che ancora ci contraddistingue ci impone di «dare a Cesare-D’Alema quel che è
di Cesare-D’Alema» e poiché – come tutti ricorderanno – è sua la paternità di
quell’espressione, non vorremmo certo passare per nostalgici, ma mai incipit –
per dar corso opportuno alle riflessioni che qui intendiamo esporre – fu più
appropriato e consono di questo: perché?
Perché – stanti le ragioni di cui
sopra – è evidente che il nostro paese, ben lungi dal potersi definire normale,
dalla propria storia – a destra come a sinistra (sempre ammesso che qualche
«cromosoma mancino» sia rimasto nel dna del maggiore dei partiti eredi di una
data tradizione) – non ha imparato nulla.
Infatti, il berlusconismo –
malattia i cui germi, da circa un ventennio, hanno attecchito senza incontrare
ostacoli in un organismo, il nostro, la cui memoria storica è quanto mai labile
e lacunosa – se, a destra, ha sdoganato e riproposto – a ben guardare, senza
variante alcuna – la versione mussoliniana del culto della personalità, ha
finito col permeare di sé – a nostro parere, in senso negativo – anche vasti
strati di quella sinistra – la cui matrice può essere o anche non essere
necessariamente post-comunista o socialdemocratica – che nell’ottantanove ha
capito la vera portata della caduta del Muro.
Intendiamoci, Matteo Renzi non è certo né neo, né post fascista – e, in
fin dei conti, forse (il ricorso al dubitativo ci sia concesso) non è nemmeno
berlusconiano, vista la decisa presa di posizione seguita alla condanna
definitiva di Berlusconi in Cassazione – ma ha comunque imparato perfettamente,
dall’ex premier ed ex cavaliere, tutti i meccanismi che sottendono
all’adulazione delle masse ed alla comunicazione – diretta ma distorta – verso
queste ultime.
Più che alla testa, infatti, il
Sindaco di Firenze parla alla pancia della gente; parla e dice quello che la
gente vuol sentire, facendo attenzione a bollare come banali «tecnicalities» –
perché fa sempre presa mostrare di sapere l’inglese – le questioni
istituzionali più brigose: così, ad esempio, la necessaria e urgente riforma
della Legge elettorale si trasforma nella semplice necessità di trovare un modo
per eleggere «Il Sindaco degli italiani», con buona pace della politologia (che
– chissà perché – si ostina a distinguere i sistemi elettorali di tipo
proporzionale da quelli di tipo maggioritario) e delle ovvie correlazioni tra i
predetti sistemi e l’articolazione della forma di Governo; così, ad esempio, il
superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei
parlamentari fanno tutt’uno col concetto, o meglio, con lo slogan – la «parola
d’ordine» facile-facile ed immediatamente comprensibile – della rottamazione, e
lui – che pure, politicamente parlando, non è proprio di primissimo pelo –
diventa l’emblema, il simbolo, la personificazione – in chiave progressista –
del nuovo che avanza, il paladino dell’improcrastinabile rinnovamento della
classe dirigente del PD, l’eroe romantico disposto a metterci la faccia pur di cambiare – mosso
com’è da mero spirito di sacrificio e di servizio, s’intende – il partito, la
politica, il mondo intero.
Però, persuasi come siamo che non
sia tutta farina del suo sacco e che tutto quell’ardore sia dettato da ragioni
differenti – per quanto umanamente comprensibili, oltre che politicamente
legittime – rispetto a quelle dichiarate (domandare in proposito a quel Giorgio
Gori che ha importato in Italia il format televisivo del Grande fratello lo
smitizzerebbe non poco), non possiamo esimerci dal rammentare che il nostro –
così anomalo, smemorato e poco avvezzo a trarre dalla Storia le debite lezioni
– è anche, se non soprattutto, il paese de «Il gattopardo», quello in cui
occorre che tutto cambi perché tutto resti esattamente com’è.
L’attuale inquilino di Palazzo
Vecchio, non solo non sfugge alla – né rigetta la – logica di cui sopra, ma
nuota e – anzi – dimostra di essere
perfettamente a proprio agio, di sguazzare senza problemi, in quello stagno
paludoso e salmastro fatto di utilissime contraddizioni, facilissimi
fraintendimenti, mutevoli ed estemporanee convenienze e quant’altro: allora, è
chiaro che – se era doveroso, l’anno passato, derogare (onde permettergli di
sfidare Bersani) ad uno Statuto del Partito che prevedeva l’automatica
corrispondenza tra segretario e candidato premier – ora, alla vigilia del nuovo
Congresso, quello stesso automatismo deve restare intonso; allora, è chiaro che
– poiché siamo un paese di santi (ed è probabilmente vero), navigatori (giammai
Schettino, ovviamente, ma Colombo o De Falco docet) e “poeti” – come nulla
fosse, s’accantona la rottamazione e si scrive – o ci si fa scrivere – un
libriccino per spiegare come e perché è d’uopo andare oltre la medesima, un
pamphlet – ricco, peraltro, di orrori sintattici e formali più che di utili
indicazioni di prospettiva – che ha l’unico obiettivo di mantenere viva la luce
dell’ipotetico astro nascente.
Ebbene, sulla ribalta della scena
politica nazionale Renzi c’è, ci sa stare e – se imparerà a parlare un po’ meno
e a controllare l’incipiente smania di visibilità propria della sua indole – vi
resterà a lungo, questo è certo: infatti, la Dottrina si incarica di
ricordare a tutti noi che un altro fiorentino, Nicolò Machiavelli, considerava
la politica come la donna che s’accompagna al principe i cui modi si confanno
alla qualità dei tempi e – siccome quella dell’era in cui siamo immersi a noi
pare tutt’altro che eccelsa – non ci resta che fare a Matteo, la cui carriera
quindi è spalancata, i nostri migliori auguri!
Per quanto ci riguarda, tuttavia,
saremo pure demodé, ma restiamo convinti che la politica coincida – e debba
continuare a coincidere – in senso weberiano, con la decisione e/o l’influenza
sulla decisione e – si badi – non è una questione, per così dire, di lana
caprina.
Il «canale di regolamentazione
dell’obbligazione politica» – come lo stesso Max Weber definiva i Partiti –
denominato appunto «Partito democratico», a nostro giudizio, attraversa –
complice, per un verso, un’interpretazione erronea e forviante dei meccanismi e
della logica delle primarie e, per l’altro, lo sconcertante spettacolo offerto
da Deputati e Senatori di Sant’Andrea delle Fratte al momento di eleggere colui
che avrebbe dovuto succedere a Napolitano – una delle fasi più complesse della
sua pur breve storia.
A ben guardare – ad ascoltare e
leggere umori, impressioni ed opinioni di iscritti, simpatizzanti ed elettori
democratici, cioè – sembra traballare pericolosamente proprio quella
«obbligazione politica» – meglio conosciuta, oggi, come «fidelizzazione» – che,
vista con gli occhi del partito, rappresenta – o meglio, ha rappresentato sino
ad ora – una sorta di polizza assicurativa su vasta parte del suo consenso e,
dal punto di vista della base, incarna invece l’appartenenza, l’orizzonte
ideale e forse – anzi, senza dubbio – anche la differenza etica e morale –
prima ancora che organizzativa e strutturale – da vantare nei confronti della
destra.
Certo, il sostegno al governo delle
larghe intese – col suo carico di coabitazioni e convivenze forzate tra
esponenti PD ed epigoni, figli e figliastri del cavaliere – non aiuta, ma
ricondurre unicamente a questa circostanza le «convulsioni» che – dalla base al
vertice – agitano il partito sarebbe quanto mai miope, anche perché i democratici
– da tempo (salvo alcune eclatanti eccezioni a cui, in questa stessa sede, si è
già fatto cenno e sulle quali, a breve, si ritornerà) – hanno fatto della
responsabilità verso il Paese un cardine dirimente del loro agire.
No, è che, appunto – quando, a Roma,
qualcuno decide di utilizzare l’elezione del Capo dello Stato per inscenare
assurde prove muscolari tra correnti (alla faccia dell’unanimità riscontrata,
sul nome di Prodi, poche ore prima in Direzione) e il partito diventa un
semplicissimo «spazio politico» (per usare le parole di un Bersani che ha
finito per essere l’unico capro espiatorio della mancata vittoria-non sconfitta
elettorale) nel cui informe recinto tutti procedono in ordine sparso e con il
mero e puerile intento di avere, nella migliore delle ipotesi, trenta secondi
di notorietà – a casa, dove uno più uno continua a fare due, la base si
stordisce, resta attonita, interdetta: credeva che la politica fosse una cosa
seria, che il suo partito – che è bello perché non c’è un capo e ognuno può
dire la sua, ma poi si decide e si fa quel che si è deciso – fosse un partito
serio e, invece, smarrita e delusa, ora – di fronte a chi urla che la politica
fa schifo, che è solo un «magna-magna» e che tanto sono tutti uguali – non
sapendo come e cosa ribattere, abbassa la testa e se ne sta in silenzio.
Insomma, a qualche anno dalla sua –
ci si passi il termine – «fondazione anagrafica», ci pare sia del tutto
evidente, oggi, la necessità di procedere – senza indugi e renitenze da parte
di alcuno – alla vera e propria fondazione politica del PD, e crediamo che
questo debba essere lo scopo, l’obiettivo unico e irrinunciabile dell’imminente
assise congressuale che – pertanto – non dovrà ridursi ad uno sterile scontro
politico tra individualità più o meno carismatiche – e/o portatrici di doti più
o meno pingui di voti e consensi personali – ma dovrà servire a disegnare
finalmente, una volta per tutte, il volto, l’identità – al tempo stesso ideale
e valoriale – della nuova forma-partito: se così non fosse, se il congresso si
trasformasse nell’ennesima resa dei conti interna – combattuta magari a suon di
invettive e slogan pseudo-elettorali, riproducendo quella contrapposizione tra
«fazioni» e «tifoserie» che ha sin qui caratterizzato l’utilizzo dello
strumento delle primarie – si fallirebbe un altro appuntamento con la Storia,
nonché un’altra possibilità – forse l’ultima – di dare una risposta alla
domanda di senso che sale dal Paese, ribadendo e riaffermando – a fronte ed a
dispetto del qualunquismo montante – il primato della politica ed il suo
indispensabile ruolo di mediazione ed intermediazione tra istanze sociali
diverse e di rappresentanza degli interessi collettivi.
È una domanda, quella di cui
parliamo, che – figlia com’è della complessità propria della società
contemporanea e post moderna globalmente intesa – necessita di risposte che –
rifuggendo, rifiutando e rigettando il funzionalismo imperante – pongano
nuovamente il focus dell’analisi politica, antropologica e sociologica sulla
centralità della persona umana, dell’uomo inteso – secondo il dettato della
nostra Costituzione – «[…]sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità[…]»:
ecco perché – contrariamente a quanto, almeno stando a talune indiscrezioni di
stampa, Renzi sembra caldeggiare – consideriamo negativamente qualsiasi ipotesi
di «partito leggero» o, peggio, «liquido».
Non v’è da stupirsi, allora, se –
come stiamo facendo – nel delineare, sia pur per sommi capi, i tratti
principali del PD che vorremmo, prendiamo le mosse da quanto sancito nel
secondo articolo di quel patto – la Costituzione, appunto – che è il fondamento
stesso del nostro essere Comunità e, quindi, Società: infatti, richiamare tutti
e ciascuno all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale significa – non solo e non tanto anticipare, in linea di
principio, ciò che viene formalmente esplicitato nell’articolo quarantanove
circa il diritto dei cittadini di concorrere a determinare la politica
nazionale associandosi nei partiti – ma implica, a monte, la presa d’atto
dell’esistenza di un comune destino, di una struttura sociale unitaria della
quale occorre garantire la coesione.
La politica, in altri termini, non
può più limitarsi – come ha fatto lungo tutto l’arco di questa strana seconda
Repubblica, cioè dal novantaquattro ad oggi – a
cavalcare la realtà – magari fomentandone demagogicamente talune
degenerazioni populiste – ma deve riappropriarsi della sua «funzione ermeneutica»,
della sua capacità – cioè – di leggere ed interpretare la realtà medesima,
ovvero le pulsioni, le criticità e/o le peculiarità del tessuto sociale che ha
l’onere di guidare e governare: i partiti strutturati, i partiti organizzati e
radicati hanno questo scopo, contribuiscono in questo modo a promuovere e
tutelare quella coesione sociale della cui necessità si faceva, pocanzi,
esplicita menzione; i partiti strutturati, organizzati e radicati – nell’Europa
dei Greci e dei Romani – qualunque sia il loro orientamento ideale e valoriale,
o sono così o non sono affatto, sempre che non ci si arrenda definitivamente ad
una visione – appunto – meramente funzionale del rapporto uomo-società e – di
conseguenza – alla logica Simmeliana «dell’uomo blasé», dell’individuo
atomizzato, del singolo che è tale – non tanto perché dotato di una personalità sua-propria, autonoma e
differente da qualsiasi altra – quanto in virtù delle relazioni che –
attraverso il denaro – riesce ad intessere coi diversi sottosistemi sociali con
cui entra in contatto.
Ecco qual è, pertanto, il punto
vero e dirimente di una dissertazione –
quella avente ad oggetto la dicotomia «partito strutturato-partito liquido» –
che, altrimenti, sarebbe priva di fondamento: è blasé, infatti, l’individuo che
– supinamente e stupidamente – accetta sia il tempo a condizionare e dettare le
mode e gli stili di vita; è blasé, infatti – in altre parole – l’individuo che
si lascia condizionare dal tempo, tal che – se proprio il tempo ha istaurato la
moda in forza della quale abolire totalmente il finanziamento pubblico dei
partiti è sufficiente, per osmosi, ad evitare le evidenti distorsioni della
pubblica morale che si sono registrate in questi anni – allora il contributo
dello Stato alle forze politiche va eliminato: il fatto che ciò, gioco-forza, implichi
una restrizione su base eminentemente censitaria del corpo elettorale attivo e,
quindi, di quello passivo – cioè un balzo all’indietro di circa duecento anni
di tutto il dibattito concernente la rappresentanza politica, ovvero la
rappresentatività della politica, nonché una palese violazione dei principi
costituzionali richiamati più sopra – pare non importi a nessuno, sia da
considerarsi cioè – tutt’al più – alla stregua di un banale effetto secondario
e/o collaterale di questa cosiddetta riforma.
Ora, poiché è indubbio che il tema
abbia – al di là di tutte le strumentalizzazioni populistiche e demagogiche
cui, forse anche per natura, si presta – una sua importantissima valenza etica,
crediamo che vada approcciato ed affrontato in modo serio, empirico e
circostanziato: diremo quindi che – a nostro giudizio – se è opportuno e
financo d’uopo rivedere l’ammontare complessivo di tali risorse, se è
egualmente necessario ripensare anche i meccanismi che sottendono alla loro
erogazione ed allocazione, non si può però transigere – perché ne va
dell’effettivo esercizio dei diritti democratici – sul principio per cui il
pubblico sostegno ai diversi soggetti politici è, di per sé, garanzia e tutela
della rappresentanza e della rappresentatività – quanto meno ipotetica e
potenziale – dell’intera società.
Dunque, il partito democratico che
vorremmo – quello per costruire il quale sarebbe quanto mai urgente e consono
che il prossimo congresso si adoperasse fattivamente – è un soggetto politico
strutturato e moderno (perché a noi pare che le due cose non siano affatto, tra
loro, antitetiche), territorialmente presente e radicato, fondato su una
concezione, una lettura ed un’interpretazione antropologicamente umana e,
pertanto, filosoficamente umanistica della realtà, nonché del ruolo e delle
finalità proprie e peculiari di una politica che – lungi dall’essere sinonimo
di opportunismo, perbenismo di maniera e, conseguentemente, carrierismo – si
faccia carico di rappresentare le esigenze, i bisogni e le speranze – non solo
e non tanto, utopisticamente parlando, della società nel suo complesso –
quanto, e anzi soprattutto, di coloro la cui «esistenza libera e dignitosa» –
per restare fedeli, ancora una volta, alla lettera ed allo spirito del
dettato Costituzionale – è quotidianamente messa a repentaglio, ad esempio, da
un’economia in crisi che – per tanti, troppi anni – ha pensato, in un certo
qual modo, di poter essere auto poietica, di poter bastare a se stessa, quando
– da che mondo è mondo – è risaputo che è il lavoro – lo stesso lavoro che
trasforma le materie prime in prodotti finiti – a consentire la corretta
circolazione di quel denaro per mezzo del quale si garantisce il consumo.
Ecco, è così che chi scrive
s’immagina il partito nelle cui schiere sarebbe onorato, lieto e fiero
d’annoverarsi, il partito per il quale
chi scrive sarebbe disposto a spendersi senza posa: un partito – cioè – che non
fosse preda del – o, se si preferisce, non avesse come stella polare il
– consenso immediato, ma la costruzione di un futuro, un orizzonte , un domani
in cui – pur nel quadro di una società le cui fondamenta stesse della civile convivenza (vedi il principio di
uguaglianza formale e sostanziale di fronte alla Legge, nonché il rispetto
delle reciproche differenze) appaiono sempre meno solide – a tutti, fossero
assicurate – indipendentemente dal censo e dalle condizioni materiali di
ciascuno – pari opportunità di aspirare alla più piena realizzazione personale
possibile.
Preoccupato com’è di passare alla
Storia come colui che riporterà, a pieno titolo, il centrosinistra al governo –
benché noi si abbia, al contrario, fondato timore che Berlusconi, vestendo i
panni del martire, possa vincere le elezioni anche, per così dire, «in contumacia»
– Renzi, al quale peraltro il destino, la forma e i contenuti del PD siamo
convinti interessino molto relativamente, non avrebbe né l’indole – ovvero l’inclinazione
morale – né, meno che mai, la caratura politica per porsi alla guida di un
simile progetto, per le ragioni che a noi sembrano mirabilmente sintetizzate
nelle parole con le quali, l’undici agosto scorso, Eugenio Scalfari concludeva
il suo editoriale:
«[…]attenzione» – ammoniva, infatti, il
decano dei giornalisti italiani – «non è
l'anagrafe che comanda, è la capacità, la probità intellettuale ed anche
l'esperienza. A me non piacciono molto gli uccelli canterini ma di più i
seminatori e i coltivatori. Ognuno ha i suoi gusti.»
Matteo Sabbatani