lunedì 19 giugno 2023

Forse, ma – poiché siamo italiani – solo forse: in morte di Silvio Berlusconi


Forse, ma solo forse (perché sismo e restiamo fermamente convinti che, in un altro pese, in un paese normale, tutto questo – in circostanze analoghe – non sarebbe accaduto), avremmo dovuto aspettarcelo o – se non altro – avremmo potuto iscriverlo nel novero delle cose possibili: già, perché la morte – certamente improvvisa, per quanto probabilmente non così inattesa – di Silvio Berlusconi, passato ad altra vita alle nove e trenta dello scorso dodici giugno, ha messo a nudo – ancora una volta – l’ipocrisia di fondo che caratterizza da sempre la società italiana, quella stessa ipocrisia sulla  quale – a ben vedere – proprio “sua emittenza” ha costruito gran parte delle sue fortune imprenditoriali e politiche.

Forse, ma solo forse, allora, avremmo dovuto e potuto evitare – nei giorni scorsi – di stupirci della stucchevole sequela di peana ed ingiustificati incensamenti che ha fatto immediatamente seguito all’annuncio della scomparsa del leader di Forza Italia; forse, ma solo forse – allo stesso modo e per le stesse ragioni – quindi, chiunque – per ventura – dovesse imbattersi nelle considerazioni che qui stiamo tentando di esporre non dovrebbe affatto stupirsi – ed auspichiamo non lo faccia – dei toni e dei contenuti di un commento – questo nostro – che, ben lungi dall’essere quello che giornalisticamente si è usi definire “un coccodrillo”, mira unicamente – in nome del sacrosanto “principio di realtà” – a tentare di sottrarre almeno un briciolo di verità storica al revisionismo nient’affatto strisciante che ci pare stia prendendo piede.

Forse, ma solo forse, pertanto, è il caso di ricordare che il cavaliere – che tale, negli ultimi anni, non era poi nemmeno più – tutto aveva e possedeva, anche e soprattutto in termini materiali e patrimoniali, tranne l’aureola.

Forse, ma solo forse – allora – sarebbe il caso tutti rammentassimo come – figlio di Luigi Berlusconi, un funzionario fin troppo solerte e zelante della chiacchierata e fallita banca Rasini di Milano (istituto di credito che annoverava tra i suoi correntisti gente di spiccata e specchiata probità e rettitudine come il cassiere della mafia Pippo Calò e il banchiere Michele Sindona) – Silvio abbia cominciato a costruire il suo impero proprio – per così dire – dalle e sulle – o meglio, con le – ceneri del fallimento (forse, ma solo forse, provocato ad arte) in questione.

Forse, ma solo forse – poscia – la nostra memoria collettiva – sempre ammesso che ancora esista e che noi si possa fare assegnamento su quest’ultima – dovrebbe impedire che ci dimenticassimo della circostanza in forza della quale, grazie al sostegno politico incondizionato del PSI di Bettino Craxi (e a quello, anche finanziario e non meno importante, dei fratelli Graviano, che non a caso – carte processuali alla mano – furono tra i principali ispiratori delle stragi e degli attentati del ’92-93), il fu – tre volte indegnamente – presidente del consiglio è riuscito – non solo a farsi beffe delle limitazioni imposte alla raccolta pubblicitaria dalla Legge Mammì (che venne opportunamente emendata, chissà perché, da – e con – un provvedimento ad hoc del primo governo Berlusconi, nel ’94) – ma anche a costruire Milano2 e a garantirsi i buoni servigi – ad esempio – dei giudici Metta e Squillante per sottrarre a Carlo Debenedetti il controllo della Mondadori.

Forse, ma solo forse, sarebbe altresì d’uopo che – presi dalla commozione – non facessimo spallucce dinanzi al fatto che l’uomo a cui l’attuale esecutivo ha inspiegabilmente tributato e concesso l’onore dei funerali di Stato fu lo stesso che – memore dell’assioma mussoliniano per cui “Governare gli italiani non è difficile, è inutile” – costrinse il Parlamento della Repubblica a sancire formalmente l’identità fittizia di una prostituta d’alto bordo – all’epoca minorenne – le  cui prestazioni aveva saggiato in prima persona.

Forse – ma solo forse – eccetera, eccetera: la Storia-patria degli ultimi trent’anni – non meno di quella dei due decenni precedenti – infatti, trasuda di pagine che raccontano l’altalenante parabola esistenziale, imprenditoriale e – ci si passi la franchezza – criminale di colui che ha fatto della demagogia e dello sfruttamento privatistico della cosa pubblica e della pubblica credulità una ragione di vita, uno stile, un dogma imprescindibile ed irrinunciabile, sdoganando – senza remore né ritegno alcuno – quell’istinto retrivo, tutto italico, in virtù del quale – se, per un verso,  il mancato rispetto delle regole e delle Leggi, oggi, viene percepito ed agito come un  vanto  – per l’altro,  ci  sembra quantomai ovvio che ognuno pensi a sé e Dio – se c’è – pensi per tutti, perché quello che conta davvero – in fondo – è, la domenica, il “Forza Milan, o Monza”, e “abbasso Juve”.

Forse, ma solo forse (e – nel caso non vogliate farlo – “pace”), ci perdonerete se, nel salutare un uomo così, non ci coglie il benché minimo sconforto: quel che è stato è stato, è vero, ma – per quelli di noi che, pur avendo vissuto la sua epopea, sono cresciuti comunque con la consapevolezza che (per esempio) la Costituzione non è una Legge come tante e non può essere cambiata come tutte, per quelli di noi che hanno ancora una coscienza ed intendono mantenerla – il peso della Storia non è e non sarà mai un inutile fardello.

Matteo Sabbatani

 

giovedì 23 giugno 2022

Il "Campo largo", ovvero il rischio inutile del caravanserraglio

 E ora – ora che, come recita l’adagio popolare, «Tanto tuonò che piovve», tal che Luigi Di Maio, nel solstizio d’estate, ha detto addio ai cinquestelle – che si fa? Sommessamente, ci permettiamo di porre l’interrogativo di cui sopra ai tanti, ai troppi – a nostro avviso – fautori e latori del celeberrimo «Campo largo», quell’alleanza tra PD e pentastellati che avrebbe dovuto – o che dovrebbe (chissà?) – essere il fulcro del centrosinistra che si prepara – e poi si presenta (perché solitamente è così che succede) – alle prossime elezioni. Vedete, noi che nel centrosinistra crediamo – noi che del centrosinistra ci onoriamo d’esser parte – non vorremmo passare né per cassandre, né per uccelli del malaugurio, né – meno che mai – per quel genere di amici, che in vero amici non sono, sempre pronti a sentenziare: «Io l’avevo detto»! Già, perché – ed è pur vero – in tempi non sospetti, noi avevamo detto che, facilmente, i modi ed i meccanismi della politica – presto o tardi – avrebbero prodotto l’implosione dei grillini, così come avevamo tentato di mettere in guardia circa la distruzione – poi puntualmente verificatasi – del PD ad opera di Renzi e del renzismo, ma ora – autoimponendoci di fingere che sia acqua passata, consci che «Cosa fatta capo ha» – ora, dicevamo, vorremmo semplicemente capire se l’idea del campo largo verrà – opportunamente (dal nostro punto di vista, s’intende) – accantonata o se invece il pathos pedagogico che – da Zingaretti in qua – pare animare quel che resta del Partito Democratico spingerà Letta a perseguire ancora il folle disegno di tentare di costruire – col vinavil – un rassemblement che tenga insieme, oltre a Conte e Di Maio, anche Calenda e lo stesso Renzi, nonché Bersani, Speranza, Sala e – (perché no?) – pure Mastella. Per l’ennesima volta, già lo sappiamo, verremo caldamente invitati a stare sereni, saremo additati come quelli che non comprendono la fase politica che stiamo attraversando, come i miopi – o i presbiti – che non vedono che il centro – spazio politicamente affollatissimo, ma elettoralmente inesistente – si sta riorganizzando in modo autonomo, eccetera. Sarà, ma – come tutte le colle – anche il vinavil, prima o poi, si secca e non vorremmo che – per paradosso – la prima vittima del crollo di questo raffazzonato castello fosse proprio il PD, o meglio, fosse proprio Enrico Letta: già oggi, per quello che valgono, i sondaggi ci dicono che il neofascismo targato Meloni – in questo squinternato e smemorato Paese – incontra il favore della maggioranza dei nostri concittadini e, poiché siamo consapevoli che – mentre la destra, chiunque ne sia il leader, è sempre in grado (quando serve e quando conta davvero) di ricompattarsi – da questa parte funziona, da sempre, un po’ come nel calcio (che – se e quando si perde – la prima, anzi la sola, testa a saltare è quella dell’allenatore), preghiamo il numero uno del Nazzareno di considerare che – una volta tanto per fortuna – si voterà col proporzionale, cosa che consentirà ad ogni forza politica di – per così dire – misurare anzitutto il consenso di cui gode. L’auspicabile accoglimento della nostra piccola supplica comporterebbe – e siamo certi che la circostanza non sfugga nemmeno allo scafato politico pisano – una serie di conseguenze, ma almeno gli consentirebbe – forse – di provare davvero a costruire o a ricostruire – scegliete voi – ammesso che ne abbia ancora voglia, il Partito Democratico.

Matteo Sabbatani



sabato 2 marzo 2019

Ebbene sì, al passo coi tempi

Di Matteo Sabbatani 

Ebbene sì, sono un figlio del tardo novecento; ebbene sì, ho pure una formazione novecentesca: dunque?
Lo so, sulla base dei vostri cliché – peraltro quantomai contraddittori (così stereotipati e, al tempo stesso, mutevoli e fungibili) – io non sono “al passo coi tempi”: cioè?
Qual è – di grazia – il significato reale, effettivo e concreto di una locuzione come quella di cui sopra? Su, coraggio: cosa vuol dire “essere al passo coi tempi?”
No, vi prego di credermi, la mia domanda è sincera e non cela alcun intento polemico: semplicemente, m’appello alle vostre menti eccelse per essere portato a conoscenza del senso esatto di una espressione che, ormai, è entrata nel linguaggio corrente; semplicemente – giuro – ve lo domando perché, stolto come sono, non capisco, però so  che vorrei“saperne sempre di più”…
Ora, certo che la vostra risposta sarà rigorosa, completa, corretta, puntuale e più che mai esaustiva, non ho dubbi che – dall’alto della vostra insigne sapienza – proprio perché siete “al passo coi tempi”, coglierete al volo l’occasione (io, fossi in voi, lo farei) per illustrarmi anche – una di seguito all’altra e con dovizia di particolari, s’intende – le stravolgenti e sconvolgenti novità “partorite” – sul piano epistemico, euristico e gnoseologico – da questi primi vent’anni scarsi del duemila.
Non capite? Come sarebbe a dire che non capite? Vi chiedo cosa c’è di nuovo – da un punto di vista meramente culturale – in questo inizio di secolo e voi – che, al contrario di me, a buon diritto, potete annoverarvi tra coloro che sono al passo coi tempi – non capite? 
Francamente, rimango esterrefatto e basito: qualcosa non va.
Vedete, io – che non sono al passo coi tempi per via della mia formazione novecentesca – ad esempio, so cos’è, com’è fatta e “cosa dice” la Costituzione, tal che – conoscendo approfonditamente non solo la nostra – mi arrogo il diritto – anche se non lo sono in punto di fatto – di sentirmi offeso se e quando – come pure talvolta accade – qualcuno, non avendo nemmeno idea – detto per inciso – della differenza tra la Legge fondamentale dello Stato (ossia la Costituzione, appunto) e una Legge ordinaria, mi apostrofa come “il costituzionalista del cazzo”.
Vedete, io – che, complice la mia formazione novecentesca, non sono al passo coi tempi – per ore, potrei dissertare con voi – ad esempio – della differenza tra potere e potenza: cioè di come essa sia insita  nel rapporto “comando-obbedienza”, ovvero nella distinzione tra Coazione, intesa come uso legittimo della forza, e coercizione, che – invece –  corrisponde all’uso della forza medesima a prescindere da qualsivoglia legittimazione.
Oppure, il sottoscritto – pur non essendo al passo coi tempi – potrebbe parlarvi di come, ad esempio, proprio dalla dicotomia “potere-potenza” sia scaturita l’enunciazione – ad opera di un tal Max Weber, sociologo tedesco – delle tre forme pure nelle quali, storicamente, si è manifestato il potere, nonché di come – a dire il vero – le medesime conclusioni fossero già state tratte – in ben altro contesto – da un signore di nome Gorgia che – nell’Antica Grecia, secoli e secoli prima di Cristo (e prima ancora di Socrate, Platone ed Aristotele) – fu filosofo.
E con la stessa passione – da uomo d’altri tempi quale sono –  vi spiegherei volentieri la differenza tra metafora e similitudine, tra sinestesia e sineddoche, tra iterazione ed allitterazione, tra climax ed anafora, tra iato e sinalefe, tra quinari, senari, settenari, ottonari e novenari – da una parte  e – dall’altra – deca, endeca e dodecasillabi.  
Ma sarebbe – me ne rendo conto – fiato sprecato: voi – che avreste serie difficoltà a collocare Trieste e Perugia sulla carta geografica, ma andate in vacanza alle Maldive (ché tanto basta prendere l’aereo giusto) – non avete nessun interesse a conoscere il valore, il significato e la funzione dei segni d’interpunzione e/o a comprendere la logica sottesa al loro corretto utilizzo.
Allora, oso – e poi giuro che mi taccio – porvi nuovamente la domanda e, col rischio di sembrare petulante, torno a chiedervi: cosa vuol dire – di grazia – essere al passo coi tempi?
Vuol dire – me lo insegnate voi – non accorgersi, più o meno volontariamente, del nauseabondo ed asfissiante odore di nulla e di vuoto che emana questa società dell’apparenza; vuol dire – me lo insegnate voi – aver smarrito la coscienza e la consapevolezza di ciò che siamo stati e di ciò che siamo – o dovremmo essere – al solo scopo di esaltare narcisisticamente  l’ego e gli istinti più retrivi di tutti e di ciascuno, cosa che – sul piano sociale, o meglio, sul piano del vivere comune – si traduce nel calpestare in modo sistematico – non solo in senso figurato, purtroppo –  l’altro e/o gli altri; vuol dire – mi inducete voi ad arguirlo – che questo povero poeta,  quest’umile scrittore, questo straccio di sociologo e di uomo può continuare a far vanto – a testa alta e con orgoglio – del suo non essere al passo coi tempi.                                                                                                                                                                                                   

venerdì 5 febbraio 2016

Stagioni

Una vaga sensazione di indolenza permea e pervade le prime ore di questo venerdì cinque febbraio: l’epoca è quella che è e tutti – chi più, chi meno – ne subiamo il “fascino” – si fa per dire –malato e leggermente malinconico.
Quest’anno, per di più, pare proprio che l’inverno – meteorologicamente parlando – non voglia nemmeno venire, cosa che aiuta noi poeti – sempre in balia delle bizzarre e mutevoli stagioni dell’anima – a barcamenarci un po’ meglio nel “vivere pratico", anche se l’innata attitudine a fotografare il tempo – quello “antropologico”, s’intende – turba non poco i nostri sonni: cacofonie variamente assortite – disseminate ad arte nella quotidianità del Paese – mirano, infatti, ad edulcorare la realtà di tutti e di ciascuno, distogliendo l’attenzione generale dai problemi veri; e poco male se – un domani – ci si risvegliasse in un’era nella quale la partecipazione, “il farsi carico, il prendersi cura” fossero inutili orpelli, banali incombenze da espletare – a scadenze stabilite – in ossequio al rispetto delle regole formali.
Sommessamente, da umili e semplici osservatori delle italiche magagne quali siamo, ci permettiamo di ricordare che – solo pochi anni fa, quando sembrava spirare un altro vento (ma chissà se era poi tanto diverso da quello che soffia oggi) – in molti, anche a squarcia gola, cantavano e gridavano che:
«[…]questa maledetta notte
dovrà pur finire[…]».
Adesso, tutto si è sopito; adesso – per meglio dire – in tanti si sono assopiti, ma l’alba noi – sarà che siamo ipovedenti – non la vediamo ancora.


Matteo Sabbatani

mercoledì 29 luglio 2015

Perché? E allora come?

Una domanda – in questi giorni – ci assilla costantemente:
«Perché?»
La riempiamo – di volta in volta – di contenuti e temi differenti, a seconda del contesto e delle contingenze, ma – in generale – ci arrovella e ci attanaglia il dubbio – che, in talune circostanze, assume quasi la connotazione di una certezza – di non essere capiti, o meglio, che i nostri interlocutori – scientemente – facciano orecchie da mercante e fingano di non comprendere il nocciolo delle questioni che poniamo.
Eppure – ci perdonerete questa sorta di brevissima “arringa difensiva” – a noi pare di esprimerci in un italiano corretto.
Certo, amiamo i fronzoli, gli incisi, la costruzione articolata delle frasi; d’accordo, siamo strenui cultori di una forma che – in quanto tale – si fa sostanza solo se, e quando, si esalta nella sintassi, ossia nel tentativo di indurre il lettore – attraverso la punteggiatura – a leggere quel che scriviamo nel modo – e cioè col tono – che a noi sembra più consono, e allora?
No, dislessia e dislalia sono patologie troppo serie – e delle quali, di persona, conosciamo sin troppo bene gli effetti – perché ci possa sfiorare il benché minimo proposito di tirarle in ballo in una dissertazione – questa – che è, e ne siamo pienamente consapevoli, sufficientemente aleatoria da prestarsi a facili fraintendimenti: dunque, sono altre le cause di una solitudine – quella che ci pervade – che è figlia più dell’incomunicabilità che dell’incomprensione.
In barba – spesso – alla coerenza, ogni epoca ha i suoi miti – anche estemporanei, per fortuna – e le sue potentissime “ubriacature collettive” destinate – al pari di qualunque fenomeno sociale – ad esaurirsi – sovente – con la stessa, virale rapidità che ne ha determinato la diffusione e la propagazione.
L’auspicio, allora, è che basti dare tempo al tempo, magari sedendo sulla sponda d’un fiume o sulla cima di una collina, in attesa di vedere “i carri” – gli stessi che si erano repentinamente stipati all’inverosimile pur di goder d’uno spicchio di luce riflessa – vuotarsi di colpo, lasciando solo e senza corona quel che – finalmente – apparirà come il feticcio d’un condottiero.
A noi – guerrieri “senza patria e senza spada” – non resta, nel frattempo, che mantenerci in equilibrio: come? Come ci insegnò qualcuno:
«Con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro», quello vero, però, che non può – né vuole – scrollarsi di dosso le proprie radici, perché il domani è tale solo sapendo che “Ieri” non è un participio di “Adesso”.

Matteo Sabbatani

venerdì 6 giugno 2014

«Com'era e com'è»

Da qualche giorno a questa parte – per chissà quale ancestrale, misterioso motivo – ci ritroviamo spesso, improvvisamente, catapultati nel labirintici sentieri del «com’era e com’è», un giochino assurdo – e, per certi versi, anche alienante – che, è vero, poggiato sul vizio di un’inutilità di fondo, lascia il tempo che trova – tanto per dirla con un luogo comune – ma al quale non riusciamo – e forse, masochisticamente parlando, nemmeno vogliamo – sfuggire.
Niente e nessuno – detto per inciso – impone a chi legge di seguire – né, tanto meno, condividere – questa nostra libera scelta, s’intende e, dunque, vi invitiamo caldamente – se avete di meglio da fare – a procedere spediti nel dipanare una matassa, quella della vostra quotidianità, che – ne siamo certi – si compone di urgenze molto più pregnanti di quanto non sia ogni tentativo – peraltro già in partenza vano – di raccapezzarvi tra queste elucubrazioni nostalgiche e stantie.
Per quanto ci riguarda, però, è diverso; per quanto ci riguarda, però – ovverosia per natura e inclinazione personale – non possiamo esimerci dall’accettare, ogni volta, la sfida e, provando a percorrere senza timore quegli stessi sentieri, constatare amaramente com’era una volta – quando c’erano persino le idee, quelle che ti formavi vivendo come e dove vivevi e che, agli occhi del mondo, spiegavano chi eri e che, a te, davano un’identità e, udite-udite, un senso di appartenenza – e, invece, com’è adesso – che non si vede più neppure l’ombra di un’idea degna di essere intesa come tale, che tu sei tu (comunque e sempre) e di quel che pensa il mondo, sempre ammesso che pensi, è inutile parlarne e/o tenerne conto.
Eppure – ed è forse persino ovvio sia così – pare che tutto continui comunque, sia pur sotto insegne e secondo logiche dettate dalla demagogia e da un’irrefrenabile esigenza di primazia individuale: all’occasione – quindi – il mero tornaconto privato si ammanta col velo d’un presunto, ipotetico, futuro e futuribile pubblico beneficio.
In fondo – pensiamoci – dov’è la novità? Già, stiamo – molto probabilmente – giocando col fuoco, lo confessiamo e – con la stessa onestà intellettuale – ammettiamo di essere perfettamente consapevoli che – se ci bruciassimo – la colpa sarebbe solo nostra, ma il labirinto del «com’era e com’è» ha una sola via d’uscita.
Dunque, chi dovesse – per avventura – incrociare lo sguardo imbronciato e deluso di una signora coerenza legittimamente in fuga – per favore – la fermi e la coccoli a dovere: qualcuno qui, disperatamente, la implora di tornare.

Matteo Sabbatani

venerdì 23 agosto 2013

Renzi, il PD, il Congresso, la leadership e la premiership: va bene, ma la politica?



 
Se il nostro fosse un Paese normale, una normale democrazia occidentale ed europea, darebbe sicuramente l’importanza che merita a quel valore della memoria che – data la sua, la nostra Storia – dovrebbe esserne un carattere peculiare e fondante, ma del quale – invece e purtroppo – nella società italiana non pare esservi traccia alcuna e per coltivare il quale non sembra vi sia né lo spazio, né il tempo, né tanto meno – cosa di per sé gravissima – la volontà: viviamo un perenne e costante «presente», un «adesso» assoluto e apparentemente imperituro, un «qui ed ora» assolutamente arbitrario, autoreferenziale ed auto centrato, sganciato da qualsiasi «prima», per cui il passato – anche quello prossimo – oltre che lontano a prescindere, è qualcosa di inutile e di sterile, qualcosa che non serve neppure ricordare.
Ora, poiché l’onestà intellettuale che ancora ci contraddistingue ci impone di «dare a Cesare-D’Alema quel che è di Cesare-D’Alema» e poiché – come tutti ricorderanno – è sua la paternità di quell’espressione, non vorremmo certo passare per nostalgici, ma mai incipit – per dar corso opportuno alle riflessioni che qui intendiamo esporre – fu più appropriato e consono di questo: perché?
Perché – stanti le ragioni di cui sopra – è evidente che il nostro paese, ben lungi dal potersi definire normale, dalla propria storia – a destra come a sinistra (sempre ammesso che qualche «cromosoma mancino» sia rimasto nel dna del maggiore dei partiti eredi di una data tradizione) – non ha imparato nulla.
Infatti, il berlusconismo – malattia i cui germi, da circa un ventennio, hanno attecchito senza incontrare ostacoli in un organismo, il nostro, la cui memoria storica è quanto mai labile e lacunosa – se, a destra, ha sdoganato e riproposto – a ben guardare, senza variante alcuna – la versione mussoliniana del culto della personalità, ha finito col permeare di sé – a nostro parere, in senso negativo – anche vasti strati di quella sinistra – la cui matrice può essere o anche non essere necessariamente post-comunista o socialdemocratica – che nell’ottantanove ha capito la vera portata della caduta del Muro.
Intendiamoci, Matteo Renzi  non è certo né neo, né post fascista – e, in fin dei conti, forse (il ricorso al dubitativo ci sia concesso) non è nemmeno berlusconiano, vista la decisa presa di posizione seguita alla condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione – ma ha comunque imparato perfettamente, dall’ex premier ed ex cavaliere, tutti i meccanismi che sottendono all’adulazione delle masse ed alla comunicazione – diretta ma distorta – verso queste ultime.
Più che alla testa, infatti, il Sindaco di Firenze parla alla pancia della gente; parla e dice quello che la gente vuol sentire, facendo attenzione a bollare come banali «tecnicalities» – perché fa sempre presa mostrare di sapere l’inglese – le questioni istituzionali più brigose: così, ad esempio, la necessaria e urgente riforma della Legge elettorale si trasforma nella semplice necessità di trovare un modo per eleggere «Il Sindaco degli italiani», con buona pace della politologia (che – chissà perché – si ostina a distinguere i sistemi elettorali di tipo proporzionale da quelli di tipo maggioritario) e delle ovvie correlazioni tra i predetti sistemi e l’articolazione della forma di Governo; così, ad esempio, il superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei parlamentari fanno tutt’uno col concetto, o meglio, con lo slogan – la «parola d’ordine» facile-facile ed immediatamente comprensibile – della rottamazione, e lui – che pure, politicamente parlando, non è proprio di primissimo pelo – diventa l’emblema, il simbolo, la personificazione – in chiave progressista – del nuovo che avanza, il paladino dell’improcrastinabile rinnovamento della classe dirigente del PD, l’eroe romantico disposto a  metterci la faccia pur di cambiare – mosso com’è da mero spirito di sacrificio e di servizio, s’intende – il partito, la politica, il mondo intero.
Però, persuasi come siamo che non sia tutta farina del suo sacco e che tutto quell’ardore sia dettato da ragioni differenti – per quanto umanamente comprensibili, oltre che politicamente legittime – rispetto a quelle dichiarate (domandare in proposito a quel Giorgio Gori che ha importato in Italia il format televisivo del Grande fratello lo smitizzerebbe non poco), non possiamo esimerci dal rammentare che il nostro – così anomalo, smemorato e poco avvezzo a trarre dalla Storia le debite lezioni – è anche, se non soprattutto, il paese de «Il gattopardo», quello in cui occorre che tutto cambi perché tutto resti esattamente com’è.
L’attuale inquilino di Palazzo Vecchio, non solo non sfugge alla – né rigetta la – logica di cui sopra, ma nuota e – anzi – dimostra di essere  perfettamente a proprio agio, di sguazzare senza problemi, in quello stagno paludoso e salmastro fatto di utilissime contraddizioni, facilissimi fraintendimenti, mutevoli ed estemporanee convenienze e quant’altro: allora, è chiaro che – se era doveroso, l’anno passato, derogare (onde permettergli di sfidare Bersani) ad uno Statuto del Partito che prevedeva l’automatica corrispondenza tra segretario e candidato premier – ora, alla vigilia del nuovo Congresso, quello stesso automatismo deve restare intonso; allora, è chiaro che – poiché siamo un paese di santi (ed è probabilmente vero), navigatori (giammai Schettino, ovviamente, ma Colombo o De Falco docet) e “poeti” – come nulla fosse, s’accantona la rottamazione e si scrive – o ci si fa scrivere – un libriccino per spiegare come e perché è d’uopo andare oltre la medesima, un pamphlet – ricco, peraltro, di orrori sintattici e formali più che di utili indicazioni di prospettiva – che ha l’unico obiettivo di mantenere viva la luce dell’ipotetico astro nascente.
Ebbene, sulla ribalta della scena politica nazionale Renzi c’è, ci sa stare e – se imparerà a parlare un po’ meno e a controllare l’incipiente smania di visibilità propria della sua indole – vi resterà a lungo, questo è certo: infatti, la Dottrina si incarica di ricordare a tutti noi che un altro fiorentino, Nicolò Machiavelli, considerava la politica come la donna che s’accompagna al principe i cui modi si confanno alla qualità dei tempi e – siccome quella dell’era in cui siamo immersi a noi pare tutt’altro che eccelsa – non ci resta che fare a Matteo, la cui carriera quindi è spalancata, i nostri migliori auguri!
Per quanto ci riguarda, tuttavia, saremo pure demodé, ma restiamo convinti che la politica coincida – e debba continuare a coincidere – in senso weberiano, con la decisione e/o l’influenza sulla decisione e – si badi – non è una questione, per così dire, di lana caprina.
Il «canale di regolamentazione dell’obbligazione politica» – come lo stesso Max Weber definiva i Partiti – denominato appunto «Partito democratico», a nostro giudizio, attraversa – complice, per un verso, un’interpretazione erronea e forviante dei meccanismi e della logica delle primarie e, per l’altro, lo sconcertante spettacolo offerto da Deputati e Senatori di Sant’Andrea delle Fratte al momento di eleggere colui che avrebbe dovuto succedere a Napolitano – una delle fasi più complesse della sua pur breve storia.
A ben guardare – ad ascoltare e leggere umori, impressioni ed opinioni di iscritti, simpatizzanti ed elettori democratici, cioè – sembra traballare pericolosamente proprio quella «obbligazione politica» – meglio conosciuta, oggi, come «fidelizzazione» – che, vista con gli occhi del partito, rappresenta – o meglio, ha rappresentato sino ad ora – una sorta di polizza assicurativa su vasta parte del suo consenso e, dal punto di vista della base, incarna invece l’appartenenza, l’orizzonte ideale e forse – anzi, senza dubbio – anche la differenza etica e morale – prima ancora che organizzativa e strutturale – da vantare nei confronti della destra.
Certo, il sostegno al governo delle larghe intese – col suo carico di coabitazioni e convivenze forzate tra esponenti PD ed epigoni, figli e figliastri del cavaliere – non aiuta, ma ricondurre unicamente a questa circostanza le «convulsioni» che – dalla base al vertice – agitano il partito sarebbe quanto mai miope, anche perché i democratici – da tempo (salvo alcune eclatanti eccezioni a cui, in questa stessa sede, si è già fatto cenno e sulle quali, a breve, si ritornerà) – hanno fatto della responsabilità verso il Paese un cardine dirimente del loro agire.
No, è che, appunto – quando, a Roma, qualcuno decide di utilizzare l’elezione del Capo dello Stato per inscenare assurde prove muscolari tra correnti (alla faccia dell’unanimità riscontrata, sul nome di Prodi, poche ore prima in Direzione) e il partito diventa un semplicissimo «spazio politico» (per usare le parole di un Bersani che ha finito per essere l’unico capro espiatorio della mancata vittoria-non sconfitta elettorale) nel cui informe recinto tutti procedono in ordine sparso e con il mero e puerile intento di avere, nella migliore delle ipotesi, trenta secondi di notorietà – a casa, dove uno più uno continua a fare due, la base si stordisce, resta attonita, interdetta: credeva che la politica fosse una cosa seria, che il suo partito – che è bello perché non c’è un capo e ognuno può dire la sua, ma poi si decide e si fa quel che si è deciso – fosse un partito serio e, invece, smarrita e delusa, ora – di fronte a chi urla che la politica fa schifo, che è solo un «magna-magna» e che tanto sono tutti uguali – non sapendo come e cosa ribattere, abbassa la testa e se ne sta in silenzio.
Insomma, a qualche anno dalla sua – ci si passi il termine – «fondazione anagrafica», ci pare sia del tutto evidente, oggi, la necessità di procedere – senza indugi e renitenze da parte di alcuno – alla vera e propria fondazione politica del PD, e crediamo che questo debba essere lo scopo, l’obiettivo unico e irrinunciabile dell’imminente assise congressuale che – pertanto – non dovrà ridursi ad uno sterile scontro politico tra individualità più o meno carismatiche – e/o portatrici di doti più o meno pingui di voti e consensi personali – ma dovrà servire a disegnare finalmente, una volta per tutte, il volto, l’identità – al tempo stesso ideale e valoriale – della nuova forma-partito: se così non fosse, se il congresso si trasformasse nell’ennesima resa dei conti interna – combattuta magari a suon di invettive e slogan pseudo-elettorali, riproducendo quella contrapposizione tra «fazioni» e «tifoserie» che ha sin qui caratterizzato l’utilizzo dello strumento delle primarie – si fallirebbe un altro appuntamento con la Storia, nonché un’altra possibilità – forse l’ultima – di dare una risposta alla domanda di senso che sale dal Paese, ribadendo e riaffermando – a fronte ed a dispetto del qualunquismo montante – il primato della politica ed il suo indispensabile ruolo di mediazione ed intermediazione tra istanze sociali diverse e di rappresentanza degli interessi collettivi.
È una domanda, quella di cui parliamo, che – figlia com’è della complessità propria della società contemporanea e post moderna globalmente intesa – necessita di risposte che – rifuggendo, rifiutando e rigettando il funzionalismo imperante – pongano nuovamente il focus dell’analisi politica, antropologica e sociologica sulla centralità della persona umana, dell’uomo inteso – secondo il dettato della nostra Costituzione – «[…]sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità[…]»: ecco perché – contrariamente a quanto, almeno stando a talune indiscrezioni di stampa, Renzi sembra caldeggiare – consideriamo negativamente qualsiasi ipotesi di «partito leggero» o, peggio, «liquido».
Non v’è da stupirsi, allora, se – come stiamo facendo – nel delineare, sia pur per sommi capi, i tratti principali del PD che vorremmo, prendiamo le mosse da quanto sancito nel secondo articolo di quel patto – la Costituzione, appunto – che è il fondamento stesso del nostro essere Comunità e, quindi, Società: infatti, richiamare tutti e ciascuno all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale significa – non solo e non tanto anticipare, in linea di principio, ciò che viene formalmente esplicitato nell’articolo quarantanove circa il diritto dei cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale associandosi nei partiti – ma implica, a monte, la presa d’atto dell’esistenza di un comune destino, di una struttura sociale unitaria della quale occorre garantire la coesione.
La politica, in altri termini, non può più limitarsi – come ha fatto lungo tutto l’arco di questa strana seconda Repubblica, cioè dal novantaquattro ad oggi – a  cavalcare la realtà – magari fomentandone demagogicamente talune degenerazioni populiste – ma deve riappropriarsi della sua «funzione ermeneutica», della sua capacità – cioè – di leggere ed interpretare la realtà medesima, ovvero le pulsioni, le criticità e/o le peculiarità del tessuto sociale che ha l’onere di guidare e governare: i partiti strutturati, i partiti organizzati e radicati hanno questo scopo, contribuiscono in questo modo a promuovere e tutelare quella coesione sociale della cui necessità si faceva, pocanzi, esplicita menzione; i partiti strutturati, organizzati e radicati – nell’Europa dei Greci e dei Romani – qualunque sia il loro orientamento ideale e valoriale, o sono così o non sono affatto, sempre che non ci si arrenda definitivamente ad una visione – appunto – meramente funzionale del rapporto uomo-società e – di conseguenza – alla logica Simmeliana «dell’uomo blasé», dell’individuo atomizzato, del singolo che è tale – non tanto perché dotato  di una personalità sua-propria, autonoma e differente da qualsiasi altra – quanto in virtù delle relazioni che – attraverso il denaro – riesce ad intessere coi diversi sottosistemi sociali con cui entra in contatto.
Ecco qual è, pertanto, il punto vero e  dirimente di una dissertazione – quella avente ad oggetto la dicotomia «partito strutturato-partito liquido» – che, altrimenti, sarebbe priva di fondamento: è blasé, infatti, l’individuo che – supinamente e stupidamente – accetta sia il tempo a condizionare e dettare le mode e gli stili di vita; è blasé, infatti – in altre parole – l’individuo che si lascia condizionare dal tempo, tal che – se proprio il tempo ha istaurato la moda in forza della quale abolire totalmente il finanziamento pubblico dei partiti è sufficiente, per osmosi, ad evitare le evidenti distorsioni della pubblica morale che si sono registrate in questi anni – allora il contributo dello Stato alle forze politiche va eliminato: il fatto che ciò, gioco-forza, implichi una restrizione su base eminentemente censitaria del corpo elettorale attivo e, quindi, di quello passivo – cioè un balzo all’indietro di circa duecento anni di tutto il dibattito concernente la rappresentanza politica, ovvero la rappresentatività della politica, nonché una palese violazione dei principi costituzionali richiamati più sopra – pare non importi a nessuno, sia da considerarsi cioè – tutt’al più – alla stregua di un banale effetto secondario e/o collaterale di questa cosiddetta riforma.
Ora, poiché è indubbio che il tema abbia – al di là di tutte le strumentalizzazioni populistiche e demagogiche cui, forse anche per natura, si presta – una sua importantissima valenza etica, crediamo che vada approcciato ed affrontato in modo serio, empirico e circostanziato: diremo quindi che – a nostro giudizio – se è opportuno e financo d’uopo rivedere l’ammontare complessivo di tali risorse, se è egualmente necessario ripensare anche i meccanismi che sottendono alla loro erogazione ed allocazione, non si può però transigere – perché ne va dell’effettivo esercizio dei diritti democratici – sul principio per cui il pubblico sostegno ai diversi soggetti politici è, di per sé, garanzia e tutela della rappresentanza e della rappresentatività – quanto meno ipotetica e potenziale – dell’intera società.
Dunque, il partito democratico che vorremmo – quello per costruire il quale sarebbe quanto mai urgente e consono che il prossimo congresso si adoperasse fattivamente – è un soggetto politico strutturato e moderno (perché a noi pare che le due cose non siano affatto, tra loro, antitetiche), territorialmente presente e radicato, fondato su una concezione, una lettura ed un’interpretazione antropologicamente umana e, pertanto, filosoficamente umanistica della realtà, nonché del ruolo e delle finalità proprie e peculiari di una politica che – lungi dall’essere sinonimo di opportunismo, perbenismo di maniera e, conseguentemente, carrierismo – si faccia carico di rappresentare le esigenze, i bisogni e le speranze – non solo e non tanto, utopisticamente parlando, della società nel suo complesso – quanto, e anzi soprattutto, di coloro la cui «esistenza libera e dignitosa» –  per restare fedeli, ancora una volta, alla lettera ed allo spirito del dettato Costituzionale – è quotidianamente messa a repentaglio, ad esempio, da un’economia in crisi che – per tanti, troppi anni – ha pensato, in un certo qual modo, di poter essere auto poietica, di poter bastare a se stessa, quando – da che mondo è mondo – è risaputo che è il lavoro – lo stesso lavoro che trasforma le materie prime in prodotti finiti – a consentire la corretta circolazione di quel denaro per mezzo del quale si garantisce il consumo.
Ecco, è così che chi scrive s’immagina il partito nelle cui schiere sarebbe onorato, lieto e fiero d’annoverarsi, il  partito per il quale chi scrive sarebbe disposto a spendersi senza posa: un partito – cioè – che  non  fosse preda del – o, se si preferisce, non avesse come stella polare il – consenso immediato, ma la costruzione di un futuro, un orizzonte , un domani in cui – pur nel quadro di una società le cui fondamenta stesse della  civile convivenza (vedi il principio di uguaglianza formale e sostanziale di fronte alla Legge, nonché il rispetto delle reciproche differenze) appaiono sempre meno solide – a tutti, fossero assicurate – indipendentemente dal censo e dalle condizioni materiali di ciascuno – pari opportunità di aspirare alla più piena realizzazione personale possibile.
Preoccupato com’è di passare alla Storia come colui che riporterà, a pieno titolo, il centrosinistra al governo – benché noi si abbia, al contrario, fondato timore che Berlusconi, vestendo i panni del martire, possa vincere le elezioni anche, per così dire, «in contumacia» – Renzi, al quale peraltro il destino, la forma e i contenuti del PD siamo convinti interessino molto relativamente, non avrebbe né l’indole – ovvero l’inclinazione morale – né, meno che mai, la caratura politica per porsi alla guida di un simile progetto, per le ragioni che a noi sembrano mirabilmente sintetizzate nelle parole con le quali, l’undici agosto scorso, Eugenio Scalfari concludeva il suo editoriale:
«[…]attenzione» – ammoniva, infatti, il decano dei giornalisti italiani – «non è l'anagrafe che comanda, è la capacità, la probità intellettuale ed anche l'esperienza. A me non piacciono molto gli uccelli canterini ma di più i seminatori e i coltivatori. Ognuno ha i suoi gusti.»

                                                                                                                             Matteo Sabbatani